Da qualche giorno circola in rete il video di denuncia di una giovane genovese, laureata in ingegneria, che spiega le motivazioni per le quali ha rifiuto un’offerta di lavoro per la quale le era stato proposto un compenso di 750 euro mensili. Tra le cose che maggiormente colpiscono ci sono le motivazioni («ho rifiutato perché non è giusto», e non solo perché la retribuzione era troppo bassa), l’atteggiamento del datore di lavoro («offrono poco non perché non possono pagare di più», e infatti al suo rifiuto hanno rilanciato offrendo 1.200 euro), il peso delle disuguaglianze («me lo sono potuto permettere. I miei genitori mi avrebbero rimesso un tetto sulla testa, se avessi perso l’affitto. Molti invece avrebbero dovuto accettare: se non ci fossero stati i miei, se avessi avuto un figlio, neanche io avrei detto no. Chi può permetterselo deve dire no, dobbiamo cominciare noi a costruire una diga»).
Questa è una delle tante storie sulla disoccupazione o sottoccupazione intellettuale e giovanile, sulla precarietà, sulla negazione dei diritti, sulle colpe di cui l’Italia si sta macchiando nei confronti delle giovani generazioni. Un tema che mi sta particolarmente a cuore e che tocco con mano quotidianamente, ascoltando lo sfogo di tanti miei ex studenti, ma anche di miei familiari. Queste pagine web sono all’insegna del motto La conoscenza rende liberi, ma possiamo credere davvero che i giovani e le loro famiglie che hanno investito in conoscenza – un investimento che ha come obiettivo non solo il miglioramento delle condizioni individuali ma il futuro e lo sviluppo della società italiana – abbiano di fronte un futuro di libertà, quando vengono proposte condizioni di vita all’insegna della povertà e a volte perfino della schiavitù? E che dire del sistema pubblico dell’istruzione secondaria e universitaria? Esiste una vera differenza tra il lavoro sottopagato dei rider che consegna pizze a domicilio per pochi centesimi, quello dell”immigrato che raccoglie pomodori, quello del laureato in ingegneria o giurisprudenza (per i quali in teoria esisterebbero le tariffe minime previste dagli ordini professionali) che secondo alcuni dovrebbe essere perfino grato allo studio professionale che l’accoglie e gli propone per anni di “fare esperienza” gratis o quasi gratis? A me sembrano situazioni ugualmente gravi. Basti pensare che oltre la metà dei freelance che lavorano con partita IVA o in altre forme non tutelate guadagna meno di 10.000 euro all’anno.
Ciò che addolora è la mancanza di un patto “sociale” tra generazioni (le sole forme di solidarietà che vediamo si limitano oggi alla sfera privata e familiare, e consistono nella disponibilità di genitori e nonni a mantenere figli e nipoti ben oltre l’età in cui avrebbero dovuto conquistare la loro indipendenza economica) e la latitanza di quelle forze politiche che dovrebbero avere come naturale riferimento i diritti dei più deboli e che non riescono invece a varare misure a tutela della dignità di questi lavoratori. Quasi tutti i paesi dell’Unione Europea si sono dotati, almeno sulla carta, di norme sul salario minimo e il Parlamento europeo ha approvato nel settembre del 2022 una direttiva in materia. Ma in Italia questo regime di fatto non è presente, perché a tutelare i salari dei lavoratori ci sono i contratti collettivi nazionali che vengono siglati tra i sindacati dei lavoratori e i datori di lavoro: ma questo è un sistema che riguarda solo chi è garantito e ha già una occupazione stabile e non risolve minimamente i problemi sollevati dalla giovane ingegnera genovese.
Sinistra, se ci sei batti un colpo!