Si chiude oggi a Francoforte la 76. Edizione della Buchmesse, la più importante fiera internazionale del libro, di cui l’Italia è stata ospite d’onore. Dopo tante discussioni e polemiche per le interferenze politiche e il mancato invito o le defezioni di alcuni autori, si può dire che comunque la fiera è stata una efficace vetrina per l’editoria italiana, che ha dimostrato di godere tutto sommato di una buona salute (quarta in Europa e sesta al mondo per il valore del venduto) e speriamo che l’essere stata per una settimana al centro dell’attenzione mondiale porti a una sempre maggiore diffusione della nostra produzione libraria, con la vendita di diritti di traduzione e una maggiore conoscenza all’estero del lavoro dei nostri autori. Il Ministero della Cultura e l’Associazione italiana editori hanno coordinato un fitto programma di incontri, mostre ed eventi culturali, che in alcuni casi hanno proposto un’immagine dell’Italia un po’ stereotipata e da cartolina.
Eravamo già stati paese ospite alla fiera del 1988 e da allora i numeri del nostro comparti editoriale erano molto diversi: in trentasei anni il mercato italiano del libro è più che raddoppiato, al netto dell’inflazione. Così come è raddoppiato il numero degli editori; è triplicato il numero delle novità prodotte annualmente; anche in virtù delle tecnologie di stampa in digitale e dello sviluppo dell’e-commerce, il numero dei titoli disponibili è sestuplicato e annualmente vengono tirata 200 milioni di copie (ma ne vengono venduti 112 milioni nel mercato trade). Non è cresciuta in egual misura la platea dei lettori: erano il 36,8% della popolazione nel 1988, poi la percentuale dei lettori di libri nel 2010 ha segnato col 46,8% la punta massima, ma è ridiscesa negli ultimi anni intorno al 35%.
Per avere un’idea di quanto tempo sia trascorsi, basti pensare che sul podio delle classifiche di vendita del 1988 c’erano al primo posto le Lezioni americane di Italo Calvino e a seguire L’insostenibile leggerezza dell’essere di Milan Kundera e L’Italiano di Gian Luigi Beccaria. Sorprende che in un’Italia molto meno scolarizzata (la scuola secondaria superiore raggiungeva il 64% dei ragazzi e ora è salita al 94%; gli iscritti all’università erano 1,1 milioni e ora sono 1,9) ben 11 dei primi 25 libri in classifica erano di saggistica, che ora vende molto meno. In comprendo, malgrado le concentrazioni editoriali intervenute negli ultimi decenni, dobbiamo segnalare che i 25 titoli più venduti del 1988 erano stati sfornati da solo nve marchi editoriali, mentre una classifica attuale elencherebbe circa il doppio dei marchi.
Cosa intendiamo dire? Che le luci e le ombre si alternano e che, pur in presenza di buoni risultati dal punto di vista industriale e commerciale, resta ancora molto da fare sul fronte dell’impatto sociale del libro. Peccato che le politiche pubbliche sembrano andare nella direzione opposta a quella che sarebbe necessaria: è spartito il contributo di 30 milioni all’anno di cui le biblioteche beneficiavano dal 2020 per acquistare libri presso le librerie del territorio, è sparito il “bonus cultura” che dal 2016 il Governo erogava ai diciottenni e che si traduceva in oltre 100 milioni all’anno di incasso per editori e librai, senza parlare della fantomatica legge sul libro di cui si discuteva fin dalla passata legislatura e di cui si è persa ogni traccia,