Oggi Alberto Asor Rosa compie 80 anni e, oltre a inviargli i miei auguri, voglio approfittare dell’occasione per ricordare un suo scritto di qualche anno fa, la cui rilettura risulterebbe molto utile nella presente contingenza politica. Mi riferisco a Il grande silenzio. Intervista sugli intellettuali, rilasciata a Simonetta Fiori e pubblicata da Laterza nel 2009.
L’intervista offre in chiave diacronica una lettura del ruolo degli intellettuali nella storia d’Italia, effettuata da una finestra temporale che inquadra un panorama profondamente degradato, in una società il cui tessuto etico e culturale sembrava aver toccato il fondo, ed è ancora più avvilente dover prendere atto che il peggio doveva ancora venire e che oggi i giudizi sarebbero stati ancora più impietosi.
Lucida e amara l’analisi che Asor Rosa dedica al difficile e contraddittorio rapporto fra intellettuali e potere politico nella società italiana, segnata «da arretratezza culturale, da una debole identità nazionale e una congenita fragilità delle sue classi dirigenti. L’Italia, infatti, distrugge sistematicamente le proprie élites: sociali, politiche, culturali e persino produttive. Le minoranze intelligenti e attive sono sempre state cancellate dall’azione concorde delle maggioranze passive e di potere (finte élites più masse)» (p. 96-97).
Ci sono stati momenti felici, a partire dagli albori della nostra storia unitaria, in cui il paese è stato guidato da una progettualità alimentata anche dall’apporto dei diversi filoni culturali. Asor Rosa, al di là delle opinioni e dei giudizi sulle scelte politiche effettuate, ne cita alcuni: i governi di unità antifascista del ‘44-‘47, la ricostruzione politica ed economica che seguì alla vittoria democristiana nelle elezioni del ‘48, l’esperienza dei governi di centro-sinistra. Forse gli anni Sessanta e Settanta sono quelli in cui il rapporto fra ceto intellettuale e ceto politico fu più felice, dando vita ad una cultura politica e di governo che oggi non si può che rimpiangere. La visione strategica di studiosi di eccellenza come Giorgio Ruffolo, Paolo Sylos Labini, Antonio Giolitti o Pasquale Saraceno, che parteciparono all’esperienza del centro-sinistra, o di leader politici come Enrico Berlinguer e Aldo Moro che ispirarono la proposta del ‘compromesso storico’, è da tempo scomparsa dal panorama politico italiano. Quelle appena ricordate sono state stagioni in cui le élites intellettuali hanno avuto un peso politico e in cui, riprendendo una metafora leopardiana che Asor Rosa usa nell’intervista, le ‘opinioni’ hanno cambiato, o cercato di cambiare, i ‘costumi’ degli italiani. Poi si assiste solo a una navigazione a vista, sempre più asfittica.
La dissoluzione del rapporto fra cultura e politica inizia negli anni Ottanta e si manifesta in una progressiva e reciproca incapacità di comunicare. Il ceto politico diviene «sempre più autosufficiente, chiuso a riccio su se stesso, disposto a tutto pur di non concedere nulla a qualsiasi apporto esterno, che potrebbe suonare anche come controllo, verifica, denuncia. A provocare la crescita di autoreferenzialità dei partiti intervengono diversi fattori, tra cui la crisi e poi la morte delle grandi ideologie» (p. 82). L’impoverimento etico e culturale che caratterizza il craxismo e il berlusconismo, capaci di estendere il degrado e la negazione di ogni radicamento culturale anche a chi a loro dovrebbe opporsi, viene delineato impietosamente da Asor Rosa: la politica non sa più che farsene della cultura, l’intellettuale critico non serve più e gli subentra talvolta l’esperto ‘usa e getta’, al quale si può richiedere al massimo un contributo occasionale su singole questioni. Aggiungerei che la negazione del rapporto fra cultura e politica e la loro reciproca diffidenza sono confermate paradossalmente proprio dalle ‘parentesi’ tecniche cui il paese è stato costretto a ricorrere nei momenti di crisi più acuta, seguiti alle rovine del craxismo (governo Ciampi dall’aprile 1993 al maggio 1994) e del berlusconismo (governo Monti dal novembre 2011 all’aprile 2013), sempre che quest’ultima stagione possa davvero dirsi conclusa. La surroga tecnocratica e la quarantena della politica dimostrano che l’incapacità degli intellettuali di incidere e di farsi ascoltare è speculare alla sordità e alla autoreferenzialità della politica. Nell’esperienza italiana di questi ultimi decenni e in un quadro sostanzialmente bloccato, i due ceti possono alternarsi e tutt’al più conferirsi una delega, ma non sanno dar vita ad una sintesi virtuosa ed efficace.
Senza entrare in questioni squisitamente politiche e cercando di restare sul terreno del rapporto tra cultura e potere, voglio solo ricordare che la vera ‘rivoluzione culturale’ operata nell’ultimo trentennio – se si può usare questa espressione per Bettino Craxi e Silvio Berlusconi – consiste a mio avviso proprio nell’aver sdoganato l’antintellettualismo e nell’aver sovvertito la scala dei valori, indicando ‘nani e ballerine’ come riferimenti al posto del ceto colto e di chi esprime una qualsivoglia competenza. È amaro constatare la facilità con cui questa operazione è stata possibile, a conferma del fatto che probabilmente Craxi e Berlusconi hanno incarnato ciò che molti italiani sono o vorrebbero essere.
La possibilità per gli intellettuali di rompere il ‘silenzio’ forse dipende proprio dalla individuazione di una via intermedia, sostanziata da un rapporto corretto e franco tra cultura e politica.
Alberto Asor Rosa con la sua esperienza e con i suoi scritti ci parla di un’Italia segnata da una storia intellettuale complicata, ma ci piace credere che possa esistere una cultura capace di esprimere una forza di cambiamento, «non più una cultura che consoli dalle sofferenze – come scriveva Vittorini nel primo numero del “Politecnico”, quando l’Italia provava a rinascere – ma una cultura che protegga dalle sofferenze, che le combatta e le elimini» (p. 22).