L’Istat ha pubblicato oggi la nuova edizione del rapporto sul benessere equo e sostenibile (BES 2015). Intervenendo alla presentazione, ho concentrato la mia attenzione essenzialmente su due “dimensioni” del benessere, messe a fuoco dal rapporto: quella relativa a istruzione, formazione e partecipazione culturale (cap. 2) e quella relativa al paesaggio e al patrimonio culturale (cap. 9).
Per gli indicatori sulla formazione vengono confermati i ritardi del nostro paese rispetto alla media europea e dei paesi OCSE, ma questo divario si riduce e si notano interessanti segnali di miglioramento: cresce il numero di laureati e diplomati (nel 2013 quasi 18 punti percentuali ci separavano dall’Europa a 27; lo scorso anno il divario è sceso a poco più di 14 punti); cresce il numero di persone che hanno svolto attività di formazione continua (anche qui il ritardo passa da 4,5 punti a 2,7); si riduce il tasso di abbandono scolastico (si passa da 5 a 3,8 punti percentuali di distacco). Questi dati confermano quando già era emerso dal Rapporto annuale presentato nel maggio scorso, da cui emergeva la buona notizia che, contrariamente al passato, finalmente anche in Italia “studiare conviene” (maggiore facilità nel trovare lavoro per chi ha un livello di istruzione elevato, maggiore differenziale retributivo tra chi è laureato e chi una laurea non ce l’ha, etc.).
Ma questi dati positivi non debbono indurci a ignorare il fatto che permangono alcuni problemi, anche gravi: le differenze tra Nord e Sud restano pesanti (per es. per quanto riguarda la percentuale di laureati e diplomati, o per la dispersione scolastica); il condizionamento dovuto alla classe sociale di provenienza influisce ancora pesantemente sui percorsi scolastici e formativi, producendo una trasmissione intergenerazionale delle disuguaglianze. Le due cose viaggiano insieme (si pensi che le università meridionali hanno perso 45.000 immatricolati negli ultimi 10 anni, mentre il Centro-Nord, dopo un’iniziale perdita, ha superato la crisi di immatricolazioni), a dimostrazione che non facciamo abbastanza per ridurre gli svantaggi che la lotteria della vita assegna a chi nasce in famiglie disagiate. Anche per quanto riguarda la qualità della scuola pubblica le differenze territoriali non sono state superate, anzi sembrano essersi acuite nell’ultimo anno: lo confermano anche i risultati dei test INVALSI.
Passando ai consumi culturali e alla partecipazione culturale, che era notevolmente diminuita nel 2012 e nel 2013, possiamo notare alcuni segnali di miglioramento, che però non ci riportano ancora ai livelli del 2010. Questi segnali riguardano in particolare le visite a mostre e musei (+ 2 punti percentuali) e le visite ai siti archeologici (+1,2) e credo che ciò sia almeno in parte dovuto all’apertura gratuita dei musei per una domenica al mese.
Continua, invece, il calo della lettura di libri e giornali. E qui andrebbe fatta una riflessione approfondita, impossibile in questa sede, perché ritengo che ciò sia solo in parte un effetto della crisi economica e del calo dei consumi, mentre invece penso che le tecnologie digitali e la connessione in mobilità stiano producendo trasformazioni epocali nel modo in cui ci informiamo e ci rapportiamo alle fonti del sapere. A questo proposito, va detto che sappiamo ancora troppo poco sulla lettura in digitale ed è facilmente prevedibile che questo dato ci consentirebbe di ammortizzare almeno in parte le perdite fatte registrare dalla lettura delle pubblicazioni cartacee.
Per tutti gli indicatori, sia quelli di segno positivo sia quelli di segno negativo, il ritardo del Sud rispetto al Centro-Nord è fortissimo. Da notare che in molti casi il dato del Centro è superiore a quello del Nord.
Altre disuguaglianze geografiche emergono dal capitolo 9 a proposto del patrimonio culturale. Penso, ad esempio, alla spesa dei Comuni, alle condizioni dei centri storici e al governo del territorio (l’indice di abusivismo edilizio raggiunge livelli allarmanti nel Mezzogiorno), alla consapevolezza del deterioramento del paesaggio.
È anche una questione di senso civico, di senso di appartenenza, di attribuzione di un valore identitario al patrimonio culturale. Lo confermano anche i dati sull’andamento dell’Art bonus, il provvedimento del governo che consente sgravi fiscali del 65% a chi effettua donazioni a favore della cultura: ad oggi sono stati raccolti circa 43 milioni di euro e possiamo vedere che la regione più generosa è stata la Lombardia seguita da Veneto e Emilia Romagna, con un forte divario con le regioni meridionali. Un gran numero di donazioni sono pervenute alle fondazioni come quella del Teatro alla Scala di Milano, all’Arena di Verona, al Teatro comunale di Bologna. Credo che si combinino due elementi: la credibilità di alcune istituzioni culturali e il rapporto che esse sono riuscite a stabilire con le comunità locali. Certamente incidono molto anche i livelli di reddito e il tessuto imprenditoriale dei territori.
Il fenomeno va analizzato con attenzione e per questo motivo mi sembra molto interessante la notizia (p. 32) che sul tema della cultura civica è stato progettato un modulo che sarà inserito nell’indagine Aspetti della vita quotidiana del 2016.
Segnalo, infine, che un’utile integrazione al rapporto viene dal Rapporto UrBES, condotto dall’Istat in partnership con l’Anci e con la rete delle Città metropolitane, che misura il benessere nelle città, utilizzando una gamma di indicatori molto ampia.
Per concludere, voglio sottolineare ciò che si dice nel rapporto: gli indicatori di istruzione, formazione e partecipazione culturale sono fortemente correlati. Tutto si tiene e quindi la sola cosa da fare è investire in conoscenza. Se guardiamo la legge di stabilità, in discussione in queste settimane in Parlamento, qualcosa sembra muoversi in questa direzione: per la prima volta dopo anni, il bilancio del MiBACT fa registrare un incremento significativa.