A giorni inizieranno i corsi e si ripropone un’annosa questione, relativa ai contenuti e agli obiettivi dell’insegnamento universitario.
I corsi debbono avere un contenuto ‘disciplinare’ o insegnare un mestiere? La questione è meno banale di quanto possa sembrare e, a seconda dell’ottica con la quale si pone la domanda o si cerca di dare una risposta, le cose possono cambiare, e anche di molto.
Scopo dell’università è far progredire le conoscenze in un determinato ambito disciplinare attraverso la ricerca scientifica e trasmettere i risultati della ricerca attraverso la didattica: quindi, per fare un esempio, in un corso universitario di Storia dell’arte si parlerà del Romanico e del Barocco, di Giotto e di Picasso. Ma uno studente che si iscriva ad un corso di laurea che abbia un’ambizione professionalizzante, non si accontenterà di imparare la Storia dell’arte e vorrà ‘anche’ (a volte ‘soltanto’) che gli si insegni come ‘si fa lo storico dell’arte’, e quindi come si tratta un’opera, come la si custodisce, come la si espone, e così via. Il vero problema consiste proprio nel cercare di tenere insieme in modo equilibrato questi due aspetti, ma anche nel chiedersi se e fino a che punto questo obiettivo vada perseguito. Su questo dilemma (o su questo equivoco, se preferite) si sono fondati i corsi di Laurea in Conservazione dei beni culturali, che cercavano di tenere insieme una formazione disciplinare (a seconda dei casi, in campo archeologico, storico-artistico, archivistico, biblioteconomico, demo-etno-antropologico, musicologico) e la preparazione ad esercitare professionalmente le attività di tutela, conservazione, mediazione del patrimonio archeologico, storico-artistico, e così via. Paradossalmente, il fatto stesso che la denominazione dei corsi non facesse riferimento alle discipline ma agli oggetti dello studio ha contribuito ad alimentare questo equivoco.
Le aspettative degli studenti – specie in un’epoca in cui è difficilissimo trovare un’occupazione – mettono comprensibilmente al primo posto l’ansia di acquisire le conoscenze e le competenze necessarie per inserirsi nel mondo del lavoro.
Il problema è tutto lì: cosa serve? L’università viene spesso accusata di astrattezza e autoreferenzialità, e quindi di incapacità ad interpretare i bisogni sociali.
Mi chiedo, però: si possono insegnare le tecniche senza far conoscere le ragioni su cui quelle tecniche trovano fondamento? Cosa distingue un professionista da un mestierante, se non la consapevolezza dei fini della propria attività, e quindi degli scopi per cui una determinata tecnica è stata messa a punto, in modo che il professionista sia in grado di capire anche quando una tecnica non risponde più alle esigenze che intendeva fronteggiare e deve evolversi o essere sostituita? Un’attività di reale formazione professionale può accontentarsi di dare agli allievi la padronanza delle tecniche o non deve preoccuparsi prioritariamente di fornire ai futuri professionisti gli strumenti per poter (durante tutto l’arco della loro attività) comprendere i problemi e individuare le soluzioni? In questo senso, lo studio universitario si ferma sulla soglia dell’attività lavorativa e non può avere la pretesa di insegnare ai giovani tutto ciò che servirà loro nei decenni successivi, e che necessariamente andrà ad affinarsi anche sulla base dell’esperienza e del contesto in cui le competenze andranno applicate. L’università deve fornire una solida preparazione e cioè gli strumenti di analisi e di interpretazione che possano consentire ad un professionista di intervenire in modo autonomo e informato sulle questioni che si troverà ad affrontare nel corso della propria attività lavorativa.
Sono molto d’accordo. In particolare, non penso che i corsi universitari (sia pure con il necessario completamento delle pratiche di laboratorio) debbano o possano trasmettere “direttamente” l’insieme, assai vasto, delle tecniche e delle metodologie necessarie all’esercizio di una professione. Occorrono, per questo, percorsi più lunghi, articolati e diversificati. Si tratta, piuttosto, di costruire insieme agli studenti esperienze di studio e apprendimento che collochino i contenuti disciplinari, alcune applicazioni, le prospettive professionali, il ruolo sociale delle istituzioni e delle professioni stesse dentro una cornice di senso culturale e critica (e anche valoriale). Una funzione propedeutica di questo tipo può svolgerla solo l’Università.
Per sfuggire al rischio dell’astrattezza, e tirocini a parte, a me sembra poi utile il coinvolgimento degli studenti nei progetti “sul campo” (progetti “veri”, non simulati), perché lì autentiche occasioni di apprendimento (per tutti) nascono proprio dallo scambio delle conoscenze e dalla individuazione di soluzioni tecniche riferibili a oggetti e obiettivi specifici.
Tutti gli anni, all’inizio dei miei corsi di biblioteconomia, provo sempre a spiegare la necessità che le pratiche professionali si radichino in un tessuto di valori, di principi, di metodologie, ed anche che non si perda di vista una prospettiva ampia, e distesa storicamente, nell’interpretare la contemporaneità. Devo dire che gli studenti mostrano di apprezzare questo approccio, e capiscono bene che un corso universitario, per di più di natura introduttiva, non può essere confuso con un percorso formativo breve, che ha per obiettivo la conoscenza di una specifica procedura. Tuttavia è anche necessario dire che, purtroppo, le connessione tra questo approccio e le dinamiche di accesso alle professioni documentarie sono quantomeno incerte, e che questa perdurante frattura meriterebbe una saldatura, un ponte (ben più strutturato dei tirocini curriculari), che unisca gli indispensabili elementi di consapevolezza disciplinare a pratiche più direttamente orientate all’esercizio della professione. Tutto ciò, inoltre, è reso ancora più problematico dallo stallo ormai pluriennale del mercato del lavoro, dal mancato ricambio generazionale, dalla opacità complessiva delle prospettive.