Il 27 maggio 1923, cento anni fa, nasceva a Firenze don Lorenzo Milani. Di lui ci restano tante cose: le Esperienze pastorali (1958), che il Sant’Ufficio fece ritirare dal commercio, ritenendone “inopportuna” la lettura; lo slancio antimilitarista e il rifiuto dell’autoritarismo, il processo cui fu sottoposto per aver sostenuto l’obiezione di coscienza di cui si parla in L’obbedienza non è più una virtù (1965), dove troviamo un’affermazione che oggi, a quasi sessant’anni di distanza, risulta attualissima: «Se voi avete il diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri, allora io dirò che, nel vostro senso, io non ho Patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall’altro. Gli uni son la mia Patria, gli altri i miei stranieri»; le critiche al sistema scolastico — paragonato a «un ospedale che cura i sani e respinge i malati» — espresse nella Lettera a una professoressa (1966), l’esperienza inclusiva della scuola di Barbiana. Una vita breve, soli 44 anni, ma molto intensa, perfettamente sintetizzata nel motto ”I care” («Su una parete della nostra scuola c’è scritto grande “I care”. È il motto intraducibile dei giovani americani migliori. “Me ne importa, mi sta a cuore”. È il contrario del motto fascista “Me ne frego”.»).
Desidero qui ricordare alcune cose che di lui disse Tullio De Mauro, che ovviamente era particolarmente sensibile al tema dell’educazione linguistica e all’impegno di don Milani in questa direzione: «è solo la lingua che ci fa eguali. Eguale è chi sa esprimersi e intende l’espressione altrui.», diceva il priore di Barbiana. Il suo impegno pedagogico era totalizzante e aveva un impatto che andava oltre la scuola: ne La cultura degli italiani, il libro-intervista curato da Francesco Erbani, De Mauro parla di un «don Milani critico della società consumistica e borghese, convinto che ci fosse un problema di cultura per orientare l’uscita dalla miseria, verso condizioni più civili di eguaglianza».