Il costo (e i rischi) dell’ignoranza

Periodicamente torna alla ribalta il tema delle deboli competenze degli italiani. Il 58esimo Rapporto Censis sulla situazione sociale del Paese, presentato il 6 dicembre scorso, ha evidenziato in modo impietoso l’ignoranza dei nostri connazionali: per il 19% Mazzini è stato un politico della prima Repubblica e per il 32% la Cappella Sistina è stata affrescata da Giotto o da Leonardo. Gli studenti italiani trascorrono in classe più ore dei loro coetanei di altre nazioni (in media 27,2 ore a settimana, un valore inferiore solo a quello della Germania, dove la frequenza media è di 28 ore) e sono quelli che in Europa dedicano più tempo ai compiti a casa: mediamente circa 2,3 ore al giorno. Ma il tempo dedicato all’apprendimento non si traduce in risultati migliori: il 44% non raggiunge competenze sufficienti nella lingua italiana e il 47% in matematica. Pochi giorni dopo, il 10 dicembre, è arrivata una conferma del nostro analfabetismo funzionale dai risultati di un’indagine OCSE sulle competenze di base (comprensione di testi, capacità di fare calcoli e di risolvere problemi in modo “adattivo”) negli adulti di 16-65 anni appartenenti a 31 paesi sviluppati: nelle diverse classifiche oscilliamo fra la terzultima e la sestultima posizione.

Gli italiani leggono poco, non investono in istruzione, non si documentano, non hanno competenze. Le conseguenze di questi dati sull’economia risultano ancora più evidenti se consideriamo che il punto più basso negli indici di lettura si registra negli uomini di età compresa tra i 25 e i 54 anni, e cioè nel segmento che dovrebbe essere al culmine della produttività e che avrebbe il compito di trainare la crescita.

E questa non è l’unica conseguenza. Questa conclamata debolezza produce disuguaglianze e inficia la possibilità di una reale inclusione sociale. Torna anche alla memora un’annotazione contenuta nel volume di Tullio De Mauro su La cultura degli italiani: «sono dati che mettono in forse il funzionamento delle strutture democratiche». L’autore si chiede se si può definire democratico un sistema esercitato in condizioni di analfabetismo diffuso. «Qualcuno, come ha fatto una volta Sabino Cassese – prosegue De Mauro – corregge: non è democrazia, ma oligarchia sottoposta ogni cinque anni a un vaglio e a un riorientamento».

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