La Rai ha trasmesso un bel documentario su Giorgio Gaber (ora disponibile su RaiPlay), che offre tanti spunti per riflettere sulla produzione di un artista scomodo e anticonformista, mai banale, difficile da incasellare, e che restò forse vittima delle stesse contraddizioni che voleva stigmatizzare. Al di là dell’apprezzamento – indubitabile – per la sua statura intellettuale e le sue composizioni, in particolare per quelle firmate insieme a Sandro Luporini, va detto che la parabola creativa ed esistenziale di Gaber lo portò gradualmente a prendere le distanze da tutto e da tutti, anche dalla cultura di sinistra cui aveva sempre fatto riferimento, isolandosi nella disillusione e nella rassegnazione, rendendo forse sterile il suo messaggio.
Trovo molto interessante la discussione (dal minuto 53 in avanti) su un verso del ritornello di una sua famosa canzone: «la libertà è partecipazione». Acute le osservazioni di Pierluigi Bersani, intervistato all’interno del documentario e che si interroga sul senso che Gaber intendeva attribuire a questa espressione, senza dare per scontata un’interpretazione letterale. Gli risponde indirettamente l’autore stesso, che in un frammento di una dichiarazione inserita nel filmato non nega che non pensava a una generica partecipazione alla vita sociale o politica e che forse la scelta, dettata dall’esigenza di sintesi e dalla metrica, non fu felice. Gaber spiega che per partecipazione si riferisce alla possibilità di intervenire e di incidere, di lasciare un segno, realizzando così la propria libertà. In questo concetto avverto una certa assonanza che le ‘libertà positive’ di cui parla nei suoi scritti l’economista-filosofo Amartya Sen, pensando alla possibilità di condurre la vita desiderata, di vivere esperienze o situazioni cui l’individuo attribuisce un valore positivo, di sentirsi libero di scegliere: in definitiva, la libertà di star bene. Sen non guarda al benessere e alla felicità percepita, al subjectve well-being, a ciò che gli uomini ‘sentono’ come individui, ma a ciò che essi ‘fanno’ nella società: egli usa il termine capabilities per indicare non solo le capacità personali ma le ‘opportunità concrete’ di cui il cittadino dispone. Ecco la misura della partecipazione e dell’inclusione.