È degli ultimi mesi un’esplosione di interesse per la rapidissima e dilagante diffusione dei sistemi di intelligenza artificiale generativa, in grado di apprendere e di replicare le attività umane, e non mancano gli allarmi per alcune loro possibili applicazioni. Si teme che il chatbot conversazionale ChatGPT e programmi simili possano essere utilizzati dagli studenti per fare i compiti di scuola o le tesi di laurea, o che si possano simulare interviste a persone defunte o mai incontrate (è accaduto e la vittima inconsapevole è stato il povero Michael Schumacher), costruendo risposte banali e prevedibili sulla base di affermazioni pronunciate dal presunto intervistato in altre occasioni, o che si possano pubblicare immagini di eventi mai accaduti, o realizzare videoclip a partire da pochi e semplici input testuali. Per evitare la diffusione di informazioni scorrette, a un certo punto è perfino intervenuto il Garante della privacy, decidendo alla fine di aprile di oscurare il servizio. Il Parlamento europeo è intervenuto con una tentativo di regolamentarne l’uso. Ma a chiedere di porre un freno sono stati anche altri: nelle aziende di settore affiorano alcuni “pentiti”, che manifestano preoccupazione per il rischio che questa tecnologia vada oltre le possibilità dell’intelligenza umana.
Nel momento in cui uno strumento arriva nelle mani di tutti, e a maggior ragione quando ciò accade all’improvviso, ci si rende conto degli usi distorti che ne può fare l’utente inesperto o malintenzionato, e si immaginano gli usi leciti e quelli illeciti cui si potrebbe arrivare. Non c’è bisogno di fare un parallelo, forse inappropriato, con l’energia atomica o richiamare la metafora dell’apprendista stregone.
Arriveremo ai libri che si scrivono da soli, in modo automatico o semi-automatico, senza bisogno di un autore, ma limitandosi a un minimo di cura redazionale? Senza andare così lontano – e non perché queste applicazioni spinte non verranno sviluppate ulteriormente, considerato che già esistono i risultati di queste sperimentazioni e che tali esempi sono quanto meno verosimili – basta pensare ad alcuni usi di questi strumenti in campo editoriale: l’evoluzione dei sistemi di traduzione automatica potrebbe consentire a un editore di pubblicare simultaneamente un libro in più lingue e questo sconvolgerebbe il mercato dei diritti; il perfezionamento dei sistemi di sintesi vocale potrebbe portare alla produzione di audiolibri a costi molto contenuti, senza dover ricorrere a lettori professionali; insomma, si potrebbe innescare una dinamica che scardini gradualmente tutto l’assetto del mondo editoriale. E non voglio cimentarmi con altre ipotesi, perché non sono un appassionato di fantascienza e non riesco ad andare oltre con l’immaginazione.
Mi chiedo soltanto se è questa la direzione verso cui orientare le tecnologie o se questo non sia un modo per mettere l’intelligenza artificiale al servizio della stupidità naturale. Sarò prevenuto e all’antica, ma la trovo una prospettiva inquietante, di cui diffidare: non mi convince l’idea della tecnologia non più come aiuto all’uomo ma come sostitutiva delle attività umane, preferirei piuttosto soluzioni che possano migliorare sempre più il rapporto tra gli esseri umani e la conoscenza e non costituire invece un ostacolo o un’interferenza su questa strada. Qualcuno potrebbe obiettare che già per il passato in alcuni lavori la macchina ha sostituito l’uomo, che si è dedicato a nuove occupazioni, liberandosi da attività banali e ripetitive.
Senza tirare in ballo Umberto Eco e senza impantanarsi nella dicotomia apocalittici/integrati, c’è da augurarsi che questi strumenti vengano utilizzati con equilibrio, come una sorta di “assistenza digitale” a diverse forme di lavoro umano, compreso il lavoro intellettuale.
Staremo a vedere.