Ieri nell’Aula Magna della Sapienza — l’Università in cui aveva trascorso più di mezzo secolo, prima da studente a partire dal 1951 e poi da docente fino al 2003 — una folla di colleghi, allievi e amici ha dato l’ultimo saluto ad Alberto Asor Rosa (23 settembre 1933 / 21 dicembre 2022), professore emerito di Letteratura italiana: Antonella Polimeni, Arianna Punzi, Miguel Gotor, Giorgio Inglese, Luca Marcozzi, Massimo Cacciari, insieme alla figlia Laura e al nipote Giovanni hanno ricordato momenti e tratti diversi della sua personalità, della sua figura di studioso e di critico letterario, della sua militanza politica, dello straordinario contributo dato al dibattito culturale e civile nell’Italia repubblicana. Alle loro parole non c’è nulla da aggiungere. Qualche considerazione mi ero permesso di farla quasi dieci anni fa, quando, in occasione dei suoi ottant’anni, avevo riletto in questa stessa sede alcune sue riflessioni sul rapporto fra intellettuali e politica, presenti ne Il grande silenzio. Intervista sugli intellettuali, a cura di Simonetta Fiori (Laterza, 2009). A me sembrava, e sembra ancora oggi, che il senso di quel libro-intervista e forse il senso delle battaglie combattute, e perse, da Asor Rosa per decenni sia nel segno di «una cultura che protegga dalle sofferenze, che le combatta e le elimini».
Ho avuto il privilegio di godere della sua amicizia nell’ultimo quindicennio, dopo il mio arrivo in Sapienza. Ciò ha consentito — a me che fino a quel momento lo conoscevo solo per i suoi scritti o alcuni interventi pubblici, spesso caratterizzati da un tono netto, perentorio e a volte perfino aspro — di apprezzare anche la dimensione privata di Asor Rosa, il tono sornione dei suoi sorrisi e del suo sguardo, le lunghe conversazioni nella sua casa romana di Borgo Pio, a ridosso del Vaticano. La scrittrice Melania Mazzucco, in un ricordo apparso su “Repubblica” di ieri, ha descritto benissimo ciò che si poteva percepire di lui in quei momenti: «gli occhi vispi dietro gli occhiali, la nuvola di capelli bianchi, il sorriso ironico sotto i baffi, la battuta mordace». Il pudore dei sentimenti mi impedisce di riferire alcune dediche con cui aveva accompagnato i libri che mi ha regalato, e che oggi suonano struggenti. Gli sono ancora riconoscente per la fiducia che mi ha dimostrato quando un paio di anni fa, guardando con serenità a una fine che sentiva avvicinarsi, mi chiese di aiutarlo a individuare una destinazione da dare alla sua biblioteca e al suo archivio dopo la sua morte e solo pochi mesi fa, dopo lunghe riflessioni e attente ricognizioni, sono stati completati gli atti che potranno ora consentire alla sua volontà di adempiersi. Sono anche felice di aver contribuito, da direttore del Dipartimento in cui aveva svolto il suo magistero, a festeggiarlo il 23 settembre 2020, nel giorno del suo compleanno, per celebrare la pubblicazione del “Meridiano” che Mondadori ha voluto dedicare alle sue Scritture critiche e d’invenzione.
Poi è iniziata, del tutto inattesa, la triste parabola di un invecchiamento rapidissimo, «l’ultimo anno della malattia e dello smarrimento», secondo la mirabile definizione data da Simonetta Fiori, sempre su “Repubblica”. Ma Asor Rosa continuerà a parlarci attraverso i suoi libri, perché i Maestri non muoiono.
Ciao, Alberto.