Da tempo si discute sulla durata delle carriere scolastiche e c’è chi propone la loro abbreviazione − da realizzare mediante la riduzione a quattro anni del ciclo della scuola superiore − allo scopo di consentire ai ragazzi italiani di completare i loro studi e affacciarsi sul mercato del lavoro un anno prima, come accade in altri paesi. Chi è contrario a questo orientamento sostiene che così si rischierebbe solo di incrementare il numero dei NEET, i giovani che non studiano e non lavorano: sono già due milioni e mezzo, il 26% degli under 30, e in Europa solo la Grecia raggiunge una percentuale più elevata della nostra.
Se poi osserviamo le non lusinghiere performance che gli italiani, giovani e adulti, fanno registrare ogni volta che vengono rilevate le competenze linguistico-espressive e logico-matematiche, troveremmo buone ragioni per affermare che, al contrario, i nostri ragazzi dovrebbero andare a scuola più a lungo. Altrimenti possiamo scordarci il passaporto per entrare nella knowledge society.
Ma ora viene avanzata una proposta che potrebbe mettere tutti d’accordo: anticipare e non abbreviare i cicli degli studi. Sul «Corriere della sera» di ieri è apparso un articolo di Ricardo Franco Levi, che lancia l’idea di far iniziare la scuola dell’obbligo a cinque e non più a sei anni. Due argomenti, in particolare, mi sembrano convincenti: «È nei primi e primissimi anni di vita − scrive Levi − che il bambino, come una spugna, è più aperto ad assorbire conoscenze. È su questa decisiva fase della vita che si deve intervenire per offrire, per quanto possibile, uguali opportunità a tutti i bambini. [...] Portiamo sotto la cura e la protezione della scuola con un anno di anticipo tutti i bambini e con loro, in primo luogo, quelli che a cinque anni, in molte regioni e soprattutto nel Mezzogiorno, stanno non in un’aula ma nella strada».